È molto difficile, talvolta impossibile, riconoscere i nuovi generi musicali. Da tempo gli artisti mescolano stili differenti, ridefinendo i confini – anche geografici – di pop, rock, folk, elettronica e rap, fino ad abbatterli. All’alba del 2020, la tecnologia ha reso gli strumenti di produzione musicale accessibili a chiunque e dappertutto, pure in camera da letto, con una semplice connessione Internet.
La musica di oggi, e ancor più quella di domani, è frutto della creatività post-globale. Per osservare la sua evoluzione, lo sguardo deve volgere dalla scena di New York, Londra e Berlino a quella di Lima, Lagos o Yogyakarta. L’esplosione dello streaming, anche nei video per coinvolgere dal vivo i fan attraverso piattaforme come TikTok, Twitch e YouTube, ha reso popolari artisti sommersi e musiche da tutto il mondo, quelle erroneamente taggate nella categoria “world” che, finalmente, vivono di vita propria.
Suoni di tradizioni secolari si lasciano ora contaminare, diventano ibridi e disegnano ritmi contemporanei. Brani coinvolgenti nascono dalle ultime generazioni di musicisti, produttori, etichette e collettivi artistici fra i quali si creano legami e collaborazioni internazionali. America Latina, Africa e Asia sono i bacini più vasti da cui attingere: la loro diaspora continua a produrre talenti. Ma cosa sta accadendo alla cosiddetta musica occidentale, specialmente in Europa?
Conceptronica, la musica da ballare si ascolta al museo
Se, dopo mezzo secolo di pop e rock, il genere che ha dominato gli ultimi vent’anni di musica popolare è l’hip hop, con le sue derivazioni (urban, dubstep, trap), l’avvento di Internet ha trasformato radicalmente anche la produzione e la fruizione di musica da club. Per descrivere la musica elettronica più attuale e in voga, il critico musicale Simon Reynolds ha coniato il termine conceptronica.
Non un genere di per sé, piuttosto la modalità con cui vari produttori sperimentano la musica in funzione della ricezione di un pubblico impegnato negli spazi multidisciplinari di maggior diffusione: non più nei club e nelle discoteche, ma nei musei, nella gallerie d’arte e nei festival. E non si parla soltanto di musica iperdigitale, ma anche di design per videogiochi, animazioni tridimensionali, concetti di politica, filosofia e attualità su scenari più o meno distopici. Un ritorno all’arte totale, o almeno un tentativo, per affrontare un futuro che è già presente.
Alcuni di questi musicisti, come l’inglese Lee Gamble, i finlandesi Amnesia Scanner e il nostro Lorenzo Senni, decostruiscono suoni per ricostruire ambientazioni rave, altri cavalcano le tecnologie legate all’intelligenza artificiale (Holly Herndon), moltissimi si espongono sulle tematiche gender (Elysia Crampton, Arca, Lotic, Yves Tumor, Juliana Huxtable e Sophie).
La nuova onda latina, dal reggaeton spirituale all’andes step
La musica latina è un genere in continua evoluzione, colorato dalle tradizioni, dalle migrazioni e dalle innovazioni. Sopravvissuto a dittature militari, guerre, carestie e catastrofi naturali, continua a resistere nonostante le mode del momento. Ma questo è proprio il momento del reggaeton, che non è solo il ritmo di una hit virale come Despacito, anzi può assumere sembianze impensabili, persino spirituali. Quella del dominicano Kelman Duran, per esempio, è una musica da ballare, festosa come può essere un’esplosione di sonorità afro-caraibiche, eppure abitata da inquietudini generazionali, spazi desertici, campionamenti e linguaggi spettrali.
Circa quindici anni fa la cumbia, nata in Colombia e diffusa in tutta l’America Latina, viene “contaminata” per la prima volta con l’elettronica durante le feste Zizek a Buenos Aires da Pedro Canale, produttore che faceva risuonare pure il rumore della selva boliviana e degli uccelli del Belize. Tali feste, confluite poi in un’etichetta musicale, hanno dato origine alla digital cumbia di artisti quali La Yegros, Mitú e Nicola Cruz.
Quest’ultimo, nato in Francia da genitori ecuadoriani e con loro trasferitosi a Quito, nel cuore delle Ande, immerge le sue composizioni dai bassi moderni nei paesaggi, nella cultura del passato e nei rituali dei popoli indigeni. Nicola Cruz è ormai un fenomeno globale, alfiere della new latin wave e di quello che è stato ribattezzato come andes step.
L’electro cumbia è anche il genere più ballato a Lima, per merito di artisti come i Dengue Dengue Dengue, che si esibiscono indossando maschere fluo a richiamare il folclore peruviano. Il duo formato da Felipe Salmon e Rafael Pereira crea tempeste sonore tropicali digitalizzate, tra sound futuristico e visual accattivanti.
Dall’afrobeat all’afrobeats, nuove generazioni crescono
I ventenni del ghetto di Lagos, in Nigeria, sono cresciuti ascoltando l’afrobeat del leggendario Fela Kuti, ma anche l’hip hop americano e la dancehall giamaicana. Dall’unione di questi stili musicali è nato un mix di linguaggi ibridi e ritmi propulsivi dell’Africa occidentale, influenzato da funk, jazz, elettronica e r’n’b. Il cantato, in inglese, francese o dialetti locali come yoruba e pidgin, si è fatto più melodico, i brani si sono accorciati, è arrivato l’autotune. Così si presenta l’afrobeats: più che un genere, una cultura, un movimento.
Una musica, solo quindici anni fa considerata clandestina, che è decollata insieme all’industria cinematografica nigeriana di Nollywood. Pezzi afrobeats, adesso, riempiono spazi in Africa, Europa e Stati Uniti, dalle pubblicità alle suonerie telefoniche. Oltre a Tiwa Savage, WizKid, Burna Boy, Tekno, Bankulli, Mr Eazi e Yemi Alade, lanciati nella colonna sonora The Lion King: The Gift di Beyoncé, ci sono altri giovani esponenti come Young John, Dapo Tuburna, Davido, Afro B e Aya Nakamura che stanno facendo molto parlare di sé.
Di famiglia nigeriana è pure Chino Amobi, produttore cresciuto negli Stati Uniti che, insieme alla congolese (emigrata a Londra e poi in Belgio) Nkisi e alla sudafricana Angel-Ho, ha avviato la corrente più sperimentale, afrofuturistica e militante del sound. Sono i tre fondatori della piattaforma ed etichetta NON worldwide, un progetto che unisce artisti della diaspora africana con un approccio al suono interdisciplinare e anticonvenzionale.
Chinabot e i generi musicali sperimentali panasiatici
Un approccio simile è da poco emerso anche in Asia grazie a Chinabot, un collettivo creato per cambiare il dialogo attorno alla musica asiatica. Un’etichetta e una rete di artisti asiatici sparsi per il mondo che collaborano per produrre e promuovere musica moderna e identitaria.
Partita da soli quattro membri, Saphy Vong, Jaeho Hwang, Sabiwa e Pisitakun, la piattaforma è arrivata a raggruppare una trentina di compositori localizzati in vari angoli del pianeta. Chinabot è il perfetto esempio di diaspora asiatica nella società globalizzata di oggi: gli artisti coinvolti incorporano ritmi e suoni tradizionali in un contesto contemporaneo, spesso elettronico e sperimentale.
I pezzi che ne derivano sono eclettici e originali, rompono ogni stereotipo. Jaeho Hwang associa elementi pop a strumenti sudcoreani, mentre Lafidki (Saphy Vong), nato in un campo profughi a Phanat Nikhon (Thailandia) da genitori cambogiani fuggiti dal regime di Pol Pot e cresciuto in Francia, comunica le complesse tensioni razziali della sua terra madre presentando i suoni di oltre venti gruppi etnici. La taiwanese Sabiwa esplora lo stato dei sogni e la realtà virtuale. Ohyung, invece, realizza album e colonne sonore a Brooklyn, dove mira a esplorare modalità asioamericane alternative e sovversive. Guardando al futuro, Chinabot potrebbe diventare un faro per ogni talento panasiatico emergente.